SAN MICHELE ARCANGELO,fra devozione e tradizione popolare

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Le “Compagnie” dei Sammichelari, l’arrivo a Monte sant’Angelo e l’atmosfera della festa che fu (anni Trenta)

Scriveva Emile Bertaux, a proposito del rituale “trekking di fede” a Monte Sant’Angelo: «Per il contadino il pellegrinaggio non è uno straordinario dovere di pietà, ma un atto periodico della vita… Come i mesi estivi sono i mesi del raccolto, il mese di maggio è quello dei pellegrinaggi».

Dalla fine dell’Ottocento, il pellegrinaggio micaelico assunse una vera dimensione di massa: gruppi di devoti partivano da tutta Italia per raggiungere il Gargano, a piedi o a bordo di caratteristici carretti. I pellegrini salivano alla montagna sacra l’8 maggio e il 29 settembre, riuniti nelle “Cumpagnie” dei Sammichelari. Salivano a piedi o su carri, scandendo il cammino con canti, preghiere e riti penitenziali, fermandosi a dormire nei conventi della Via Sacra dei Longobardi: San Leonardo di Siponto, San Matteo, Santa Maria di Stignano.

Giovanni Tancredi nel 1938 descrive così i pellegrini che salgono gli impervi tornanti di Monte: «Chi vuol avere la sensazione della vera fede, venga quassù ed osservi le strade carrozzabili, gli impervi sentieri, le coste dei monti dove giovani e vecchi, uomini e donne con grossi involti sul capo, con le scarpe e le uose in mano, sgranando il rosario, salgono in lunghe file serpeggianti, oppure dispersi per le diverse scorciatoie come branchi di pecore pascenti, cantando interminabili litanie».

Nuovi mezzi di trasporto si arrampicano sul Monte Gargano: «Lungo le tortuose vie bianche filano velocemente vetturette ed autocarri, i quali non hanno sostituito interamente i vecchi carri pesanti, coperti di stuoie o di tela incerata, ben tesa su lunghe canne, per ripararsi dal sole e dalla pioggia; vere case ambulanti usate ancora dai pellegrini del Barese, del Sub Ap­pennino e dagli agiati contadini abruz­zesi, moltissimi dei quali salgono a piedi il faticoso ed aspro monte, la Monta­gna dell’Angelo, come essi la chiamano, sovente scalzi, con poco pane e pochis­simi soldi. Molte “compagnie” fanno la stra­da a piedi dal paese di provenienza al Santuario.

Quella di Sant’ Elia Fiumefreddo parte dal suo paese il primo maggio, viaggia sempre a piedi e giunge a Monte sant’Angelo, dopo sette giorni, alla vigilia di San Michele. Quella di Vasto va sino ad Apricena in treno e poi a piedi fino a Monte S. Angelo ed a Bari, impiegando sette giorni di viaggio». Ogni gruppo reca un dono all’Arcangelo. La compagnia di Bitonto porta, per conto degli abitanti dell’ in­dustriosa città barese, dei grossi recipienti pieni dell’olio per alimentare, per tutto l’anno, la lampada votiva che da secoli ardeva nella Sacra Spelonca.

Scrive ancora Tancredi: « Oltremodo interessante è la compagnia numerosissima di Potenza che da tempi remoti, per le ricche offerte fatte all’Arcangelo, ha il privilegio di es­sere accolta al suono festoso delle campane di S. Michele. Essa è chiamata “la Ferrizz” perché intorno alla “ferulizza” – una cassetta a forma di prisma quadrangolare, formata di ferule – si mettono centinaia di can­dele di varie dimensioni tenute ferme da nastri multicolori. Sulla parte anteriore campeggia la figura dell’Arcangelo». Alcune Compagnie mettevano all’asta i loro stendardi e i loro simboli di pellegrinaggio poco prima di giungere a Monte Sant’Angelo.

Un antico rituale era costituito dal lavaggio purificatore presso una fonte sita a circa 20 km dal santuario. Arrivati a Monte Sant’Angelo, i pellegrini si disponevano in ordine, precedute dal porta croce, nel luogo denominato lo Scotto, a qualche centinaio di metri dall’ingresso della basilica: era il luogo dove anticamente tutte le Compagnie, che entravano in città dalla porta di Carbonara, dovevano fermarsi a pagare la gabella a favore del clero della basilica, istituita dalla duchessa Giovanna di Durazzo e confermata dai sovrani successivi fino al 1690. In quello stesso punto, al momento della partenza, i pellegrini si inginocchiavano per chiedere all’Arcangelo la licenza di partire.

In passato, all’altare della grotta si giungeva “trascinandosi”. Drammatica la cronaca dell’arrivo dei pellegrini al santuario, raccontata da Saverio La Sorsa nel 1930: «Quando sono giunti dinanzi alle belle porte di bronzo della Basilica, s’inginocchiano, ne battono gli anelli, come invasati dalla follia, ne baciano le immagini, e perpetuando i riti dei secoli di maggiore fanatismo, traversano la sacra spelonca, strisciando a sangue la lingua per terra fino all’altare…» .

Scrive Tancredi: «Quasi tutte le compagnie, di cui la maggior parte cammina a piedi nudi, giunte alla porta del Toro, s’inginocchiano; indi a stento salgono i sei gradini semicircolari e quello rettilineo sul quale poggiano le storiche porte di bronzo, i cui anelli sono battuti rumorosamente e baciati religiosamente. Scene oltremodo impressionanti si svolgono nella famosa Grotta durante questo mese. Mentre numerose schiere di pellegrini dai più svariati costumi si pigiano, si urtano, per avvicinarsi alla ieratica figura dell’Arcangelo, irradiata da centinaia di candele che ardono sull’altare e intorno alla balaustrata di ferro, l’incessante picchiettio degli anelli delle porte di bronzo annunzia l’arrivo di altri pellegrini, i quali singhiozzando, si avanzano ginocchioni, quasi carponi e qualcuno striscia la lingua per terra: essi avanzano come fantasmi alla luce tremolante dei ceri e la moltitudine come per incanto fa largo, trattenendo il respiro, con gli occhi fissi, come stralunati, sui nuovi venuti. ..

Grida disperate rompono il profondo silenzio sotto la volta immanente della vasta Spelonca». Si usciva dalla grotta “a ritroso”, per non dare le spalle al Santo. Dopo aver rivolto fervide preghiere alla SS. Trinità ed a San Michele, i pellegrini poggiavano il piede o la mano aperta sugli scalini e ne tracciavano i precisi contorni, segnandovi la data e le iniziali del loro nome e cognome. Così fecero i loro bisnonni, così facevano migliaia e migliaia di pellegrini tanto che le scalelle, la scalinata esterna e i muri di quella interna erano tutti coperti di impronte di piedi e di mani.

Questa tradizione ricordava l’impronta del piede lasciata dall’Arcangelo San Michele nella sua seconda Apparizione. Commenta Tancredi: «I pellegrini non sanno spiegarsi il loro atto di fede, ma continueranno nei secoli ad incidere, con grande devozione, i contorni dei loro piedi e delle loro mani sulla pietra sacra della Celeste Basilica». Negli anni Trenta del Novecento, presso la porta detta del Toro, si osservavano centinaia di quadri dipinti ad olio su tela, su tavola, su cartone, su zinco, di varia forma, e di varia grandezza, nonché ali ed elmi di metallo lucente, fucili, bastoni, stampelle, corde di marinai, barche, teste, gambe, piedi e mani di cera, oltre a moltissimi altri ex voto in argento ed in argentone, a sinistra dell’ entrata alla navata Angioina, secondo la tradizione che voleva il dono votivo sulle pareti del luogo sacro.

Tancredi osserva: «Sono ex voto: li quetre di meracule donati da tutti quei pellegrini che ricevettero la grazia da San Michele. Questi ex voto, che si conterebbero a migliaia se non fossero deteriorati dall’umidità a traverso gli anni, basterebbero da soli a dimostrare la eccezionale rinomanza del vetusto Santuario, la fede sentita per l’Arcangelo San Michele da milioni di fedeli.».Le tavolette votive, opera di pittori garganici, rappresentano incidenti di caccia, incidenti di carretto, incidenti occorsi ai tagliatori di legna della Foresta Umbra, ma anche malattie, usi antichi come il lamento funebre, le rovinose cadute in pozzi e cisterne, o da lunghe scale usate per la raccolta delle olive, oltre ai morsi di cavalli e cani rabbiosi. Attualmente, rimangono soltanto 145 tavolette dipinte (di cui 133 conservate nel Museo devozionale e 12 custodite nel Museo etnografico Tancredi), ceri di varie dimensioni e provenienza, un centinaio di ex voto anatomici in argento e in metallo dorato, ornamenti preziosi.

Sull’atmosfera a Monte sant’Angelo “della festa che fu”, scrive Tancredi: «Durante i giorni di festa, la folla variopinta ingombra il vestibolo (del Santuario micaelico), ove in bell’ordine sono messe in vendita centinaia di statuette di pietra garganica o di alabastro di Carrara, rappresentanti l’Arcangelo e scolpite dagli statuari locali. Fra i dialetti di diverse regioni si leva la voce argentina delle ragazze montanare che gridano: “Li panaredd, li mazzaredde, paisà!”. Oltre le sportelle e i bastoni, nelle vicinanze della basilica si vendono i rami di pino di Aleppo, la pece di pino (lu n’cinze, l’incenso), i cavadduzze di cacio dalle lunghe penne di gallo rosse, gialle e verdi, li pupratidd (le ciambelle di cacio), l’ostia ckiene (le ostie piene), li fascenedde (le carrube), e li turcenidde (i torcinelli), li furcedde e li varr. Si vedono ancora venditori di pianelle e di chitarre, sonatori di organetti, giocolieri di bussolotti e donne che indovinano il futuro e venditori di polveri che guariscono tutti i mali… ».

I cavallucci di cacio, con o senza cavaliere, si inseriscono nella tradizione locale che ricorda ancora le leggendarie gesta dei paladini di Francia e di Carlo Magno, di Orlando, di Guerin Meschino e dei cavalieri crociati. Storie narrate durante le lunghe veglie invernali, attorno al fuoco o nei boschi. La fantasia popolare immaginava San Michele in groppa ad un cavallo bianco pronto ad intervenire in ogni circostanza pericolosa della vita. Le piume di gallo venivano tinte per farne pennacchi con cui adornare i cavallucci, ma anche bastoni, carri, busti e animali da soma al ritorno da un pellegrinaggio. Vi erano anche centinaia di venditori di frut­ta, di limoni, arance, carrube e nocciole.

Il sette maggio, vigilia della festa di San Michele, le strade cittadine erano popolate da migliaia di pellegrini. A sera inoltrata, in onore dell’Arcangelo si ac­cendevano colossali falò, le cosiddette “fanoie”. Durante l’accensione, fanciulli e giovanette cantavano strofette osannanti al Guerriero celeste: «Lu peduzz de S. Mechele/e come ciadore e come ciadore/ ciadore lu core Gesù/ e S. Mechele aiutece tu.// La manuzz de S. Mechele/ e come ciadore e come ciadore/ciadore lu core Gesù/e S. Mechele aiutece tu.// Se S. Mechele ne ‘nteness la spete/ sarrimm murte sott li prete/e laudete sempe sij/ face ‘razij S. Mechele mij//». Nell’alto silenzio della notte su per i monti e per le valli echeggiava l’eco del canto: «Evviva S. Michele; S. Michele evviva!».

2010 Teresa Maria Rauzino

articolo pubblicato su L’ATTACCO del 29-09-2010

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