Venerdì dopo le Ceneri 19 Febbraio 2021 – San Corrado Confalonieri da Piacenza, eremita (1290-1351) – PRIMA LETTURA Is 58,1-9; – Sal 50 (51) – VANGELO Mt 9,14-15
Riflessione quotidiana al Vangelo per camminare in Cristo: «Perché noi e i farisei digiuniamo molte volte, mentre i tuoi discepoli non digiunano?».
Il digiuno è una pratica penitenziale onnipresente in tutte le religioni. Un rito celebrato sopra tutto per attenuare l’arroganza e l’orgoglio, ma che si imponeva in alcune circostanze particolari: per esempio, per scongiurare un castigo divino o per sfuggire a eventi nefandi. Per molti Farisei era una delle tante pratiche escogitate dalla loro affettata religiosità per accampare diritti dinanzi al Signore e carpirne in questo modo la benevolenza (Lc 18,9-14).
Gesù condanna l’esibizionismo, l’ostentazione farisaica (Mt 6,16-18) non il digiuno che, come tutte le altre pratiche penitenziali, deve essere celato da un atteggiamento gaio, sereno, spontaneo: «Tu, quando digiuni, profumati la testa e lavati il volto» (Mt 6,17). No, quindi, a facce lugubri, tristi.
No, sopra tutto, a comportamenti ostentati unicamente per accaparrarsi le lodi e gli applausi degli uomini (Mt 6,1; 23,5). La religiosità cristiana è fatta di una spiritualità lieta, festante, briosa: «Rallegratevi nel Signore, sempre; ve lo ripeto ancora, rallegratevi. La vostra affabilità sia nota a tutti gli uomini. Il Signore è vicino!» (Fil 4,4-5) .
Il Vangelo è la buona notizia che va annunciata con una faccia ilare, sorridente.
Il peccato delle guide spirituali del popolo d’Israele è quello di non essere state capaci di cogliere in Gesù lo sposo dell’umanità. Con Gesù «l’attesa di Dio è colmata: “sono giunte le nozze dell’Agnello, la sua sposa è pronta!” [Ap 19,7]. Gesù è lo sposo che porta a compimento l’alleanza tra Dio e il suo popolo annunciata dal profeta Osea. I tempi sono dunque compiuti. Non è più il tempo per il legalismo, non è più il tempo per leggere il presente con gli occhi del passato, ma con quelli del futuro inaugurato da Gesù. Non è più il momento di digiunare, come all’epoca in cui si preparava ancora l’incontro con Dio, ma è il momento della festa. Egli è ormai qui!» (Anselmo Morandi).
Presente lo Sposo gli invitati non possono digiunare, solo nei giorni successivi alla sua morte potranno farlo: «Il primo periodo è un continuato convito, non ci può essere posto per le astensioni e le privazioni; il secondo è un tempo di lutto, quindi anche di macerazioni. Il digiuno appare quindi un rito di condoglianze che la comunità cristiana celebra per sentirsi vicina al Cristo morto e sepolto» (Ortensio Da Spinetoli).
Gesù non si stanca di ripetere questa “novità”, che non è più il tempo del legalismo, per esempio con la «parabola del vestito e dell’otre», rintuzza il cieco attaccamento dei Farisei alle loro tradizioni: ancora una volta non hanno capito la novità della Buona Novella che dichiara apertamente tramontate le vecchie pratiche religiose ormai incapaci di contenere il nuovo spirito che deve animare il discepolo. È l’immagine del vino nuovo, più di quella del panno non follato, a rendere più evidente il contrasto tra il vecchio e il nuovo.
Oppure, con l’immagine del vestito vecchio e del vino nuovo, Gesù dichiara sorpassate e inutili tutte le numerosissime, ossessionanti e minute prescrizioni giudaiche: erano diventate ormai vecchi e logori contenitori incapaci di contenere le nuove forze fermentatrici, proprie della predicazione cristiana.
Non vi può essere accordo o compromesso tra le leggi e le leggine mosaiche e il Vangelo, rivelazione ultima e definitiva dell’amore liberante di Dio: il vecchio è vecchio e va messo da parte; il vestito vecchio è frusto, liso ed è quindi inservibile. Gesù è venuto a tagliare i rami secchi non ad abolire la Legge in se stessa (Mt 5,17-19).
Sono gli orpelli a dare fastidio, ad appesantire i cuori, ad intralciare il cammino; sono le tradizioni umane che deturpano il messaggio evangelico spogliandolo della sua bellezza e della sua novità.
Fuori immagine, non basta più essere buoni giudei, occorre diventare cristiani: «Se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli» (Mt 5,20).
Con il suo digiuno l’uomo esprime da una parte che egli dipende da Dio, che ringrazia il suo creatore perché è Dio ad avere veramente in mano il suo destino. D’altra parte l’uomo religioso con la preghiera e il digiuno vuole influire su Dio, smuovere Dio a qualcosa e strappargli qualcosa.
Digiunare significa, al contrario, sciogliere le catene inique, liberare gli oppressi, accogliere i maltrattati, dare il pane agli affamati, offrire un tetto ai miseri senza tetto (Is 58,6-8).
Digiuno significa rendersi conto della necessità del fratello e attivarsi per lui.
Gesù è pienamente in linea con questa tradizione profetica quando non digiuna (Mc 2,18). Egli infrange così la legge mosaica, e secondo Lc 23,29ss in questo caso va comminata la pena di morte. Gesù non ha ordinato nessun digiuno ai suoi discepoli – e nemmeno le Lettere neotestamentarie.
Spiega però all’uomo religioso che cosa c’è in gioco allorché voglia digiunare (Mt 6,17s). Per il cristiano digiuno non significa astinenza da cibi e bevande, ma essere disponibili verso il fratello, per essere, così, disponibili nei confronti di Dio.
Se digiuni due giorni, non ti credere per questo migliore di chi non ha digiunato. Tu digiuni e magari t’arrabbi; un altro mangia, ma forse pratica la dolcezza; tu sfoghi la tensione dello spirito e la fame dello stomaco altercando; lui, al contrario, si nutre con moderazione e rende grazie a Dio. Perciò Isaia esclama ogni giorno: Non è questo il digiuno che io ho scelto, dice il Signore (Is 58,5), e ancora: “Nei giorni di digiuno si scoprono le vostre pretese; voi tormentate i dipendenti, digiunate fra processi e litigi, e prendete a pugni il debole: che vi serve digiunare in mio onore?” (Is 58,3-4). Che razza di digiuno vuoi che sia quello che lascia persistere immutata l’ira, non dico un’intera notte, ma un intero ciclo lunare e di più? Quando rifletti su te stessa, non fondare la tua gloria sulla caduta altrui, ma sul valore stesso della tua azione.
fonte – sintesi da: http://radici3.blogspot.com/2021/01/
San Corrado Confalonieri da Piacenza, eremita (1290-1351)
Egli era un nobile del Trecento, sposo felice di una gentildonna sua pari, e aveva un debole per la caccia. Un giorno, lungo la riva del Po giallastro, un ghiotto capo di selvaggina, ch’egli inseguiva a cavallo, circondato dai cani e dai bracconieri, cercò scampo dentro una macchia impenetrabile.
Dominato dall’impazienza e dal dispetto, l’appassionato cacciatore impartì un ordine imprudente: quello di dar fuoco alla macchia per stanare l’animale. Era estate, e nella pianura riarsa dal sole, gli uomini di Corrado non furono in grado di controllare le fiamme da loro stessi suscitate. Si sviluppò un incendio che, con l’aiuto del vento, distrusse le messi e le cascine vicine.
Corrado e i suoi uomini rientrarono in città senza esser notati. Nessuno era stato testimone del loro involontario malestro. Il rimorso e la paura tennero suggellate le bocche. Ma i proprietari e i contadini danneggiati protestarono presso il governatore della città, che ordinò un’inchiesta. Fu allora arrestato un vagabondo, trovato nei boschi, vicino al luogo dell’incendio. Le prove a suo carico parvero sufficienti, ed egli venne senz’altro condannato a morte. Ma sulla piazza della città, poco prima che avesse luogo l’esecuzione, Corrado non poté resistere all’impulso della propria coscienza, che gl’imponeva di scagionare l’innocente e di accusarsi colpevole al suo posto.
La sua inaspettata confessione chiarì come erano andate le cose. Poiché non si trattava di dolo, ma di responsabilità colposa, dovuta ad una imprudenza, il nobile piacentino venne condannato a risarcire tutti i danni arrecati dalle fiamme. Corrado era ricco, ma l’incendio era stato rovinoso. Quando l’ultimo danneggiato fu risarcito, egli aveva finito non solo tutti i suoi beni ma anche quelli della moglie.
I due sposi ridotti all’indigenza non si angustiarono per questo. Per ambedue quel drammatico avvenimento aveva illuminato di nuova luce tutta la loro vita, come un segno del cielo. La donna rivestì così l’abito delle poverissime figlie di Santa Chiara, entrando nel convento di Piacenza. Corrado si unì ad alcuni devoti eremiti che vivevano fuor di città, sotto la Regola del Terz’Ordine francescano.
I meriti dell’incendiario fattosi penitente furono così luminosi, che molti ammiratori presero a visitarlo e a seguirlo. Per questo Corrado preferì allontanarsi dai luoghi natali, incamminandosi verso Roma. Ma non si fermò presso le tombe degli Apostoli. Proseguì il suo lungo viaggio percorrendo tutta la penisola e passando in Sicilia. Qui si fermò, nella valle di Noto, non lontano da Siracusa, in vista del ceruleo mare Ionio, dove visse trent’anni prima presso ‘un ospedale poi come eremita sui monti. E anche qui volò alta la fama della sua santità, e soprattutto l’eco delle durissime privazioni di quel devoto penitente. Ogni venerdì egli scendeva a Noto, e, dopo essersi confessato, pregava a lungo davanti ad un celebre crocifisso che si conserva nella cattedrale della città. In quella stessa cattedrale furono riposte le sue reliquie, dopo la morte avvenuta nel 1351, 2 i cittadini di Noto onorarono con culto vivissimo il miracoloso eremita piacentino. Ottennero anche, dal Papa Leone X, di poterlo invocak come secondo Patrono della città, subito dopo il grande San Nicola, al quale è dedicata la chiesa che ospita i venerati resti del Beato Corrado, nobile di Piacenza e primo cittadino di Noto.
fonte:santodelgiorno.it