Condanne che, dopo tanto tempo, nessuno più ricordava e teneva in considerazione, ma che egli, giustamente diceva: «Non sono mai state ritrattate». Ed era vero. Il Sant’Uffizio non le aveva mai ritrattate “formalmente”, cioè con la pubblicazione di altri decreti. Ma due papi, Pio XI e Pio XII, con il loro comportamento e le loro dichiarazioni avevano dimostrato che quelle condanne erano state ingiuste ed erano da ritenersi in pratica abrogate.
Un vescovo stimato da molti
La presa di posizione di monsignor Bortignon, che egli mantenne sempre rigida e inflessibile, provocò scontenti, reazioni e scontri con diversi fedeli e con alcuni dei suoi sacerdoti. Il vescovo non scese mai a patti.
Il giovane vescovo cappuccino Girolamo Bortignon.
Condannò, arrivando fino a comminare pene severissime, come la sospensione a divinis per i sacerdoti, e la pubblica condanna nelle chiese e la proibizione di accostarsi ai sacramenti per i laici. La situazione, diventata di dominio pubblico a livello nazionale e internazionale per l’intervento dei mass media, degenerò in processi civili, con ferite insanabili, che non si sono mai rimarginate.
Monsignor Bortignon viene indicato dagli storici come il vero provocatore della “seconda persecuzione” a Padre Pio, che si concretizzò nella visita apostolica, fatta da monsignor Carlo Maccari, per ordine di Papa Giovanni XXIII, nel 1960, e nelle condanne che ad essa seguirono. In quel periodo, in Vaticano giunsero, come vedremo, molte accuse contro Padre Pio. E sarebbe stato Bortignon a “convincere” Papa Giovanni che quelle accuse erano attendibili e che, quindi, bisognava intervenire, “spingendo”, in questo modo, il “Papa Buono” in una direzione che la storia ha dimostrato essere stata totalmente sbagliata.
Ma perché monsignor Bortignon spese tanto tempo della sua vita e tante energie a combattere un sacerdote che, per tutti gli altri vescovi italiani, era, già allora, un luminoso esempio di straordinarie virtù cristiane, e che, subito dopo la morte, mentre Bortignon continuava ancora la sua personale avversione, ottenne la massima stima da parte della Chiesa con l’apertura della causa di beatificazione?
Bortignon era forse un vescovo cattivo, che combatteva i santi? Oppure una persona inetta, incapace di “intuire” le opere di Dio? Esaminando la vita di questo vescovo si comprende che nessuna delle due ipotesi è giusta.
Bortignon è stato un pastore accorto e attento ai “segni” del soprannaturale. Un grande vescovo. Stimato dagli altri vescovi e dai quattro papi sotto i quali svolse il suo ministero. Ma, forse, proprio per questo, perché era attendibile, autorevole, ascoltato anche in Vaticano, venne preso di mira dal vero nemico di Padre Pio, Satana, e “usato”, “coinvolto”, “invischiato” in una situazione sempre più ingarbugliata, il cui scopo ultimo era far fallire o almeno danneggiare il movimento dei Gruppi di preghiera voluti dal Padre.
Nato a Fellette, in provincia di Vicenza, nel 1905, Bortolo (così venne chiamato il giorno del battesimo) era l’ultimo di quindici fratelli. La famiglia Bortignon era di modeste condizioni economiche. A quindici anni entrò nell’ordine dei Francescani Cappuccini, lo stesso Ordine religioso cui apparteneva Padre Pio, e prese il nome di Girolamo. Nel 1928 venne ordinato sacerdote, poi si laureò in teologia a Roma, e tornò nel Veneto per insegnare nel seminario dei Cappuccini a Venezia. Nel 1938, a soli 33 anni, venne eletto Superiore Provinciale, e nel ‘44, vescovo di Feltre e Belluno.
Nel Veneto si stavano consumando gli ultimi mesi di guerra, e infuriavano le lotte partigiane. Bortignon dimostrò subito un grande carattere sfidando la morte per correre in soccorso dei condannati e per difendere gli ebrei.
Amico di Papa Giovanni
Nel 1949, fu nominato vescovo di Padova e rimase a capo della diocesi veneta per 33 anni, cioè fino al 1982: un record negli ultimi due secoli della diocesi patavina. Pastore energico, rigoroso, consapevole dei proprio ruolo di guida morale, fu attento agli eventi del suo tempo, anticipatore di iniziative d’avanguardia, lavoratore indefesso.
Venezia, 16 dicembre 1957. I vescovi del Triveneto rendono omaggio alle tombe dei patriarchi. Si riconoscono mons. Bortignon (a sinistra) e il cardinale Roncalli (a destra).
Nel 1953 donò il terreno per la costruzione del maggior centro di formazione professionale della provincia, Sostenne l’iniziativa pastorale dei cappellani dei lavoro nelle fabbriche, e in seguito, fu anche uno strenuo difensore dei “preti operai”, esperienza ecclesiale d’avanguardia, che in molte altre diocesi era fortemente ostacolata. Realizzò opere importanti: Villa immacolata, Casa Pio X, Casa Maria Immacolata, Villa Mater Boni Consigli. Opera degli studenti universitari, per le Missioni e soprattutto il Seminario Minore destinato a 600 alunni e la Casa della Provvidenza & Antonio per handicappati con 2000 posti letto. Un vescovo attivo, decente è stimato.
Il patriarca di Venezia, che allora era Angelo Roncalli, il futuro Giovanni XXIII, aveva per lui una grande ammirazione. Nel 1953, prima di fare il suo ingresso nella sede di Venezia, Roncalli volle incontrarlo a quattrocchi nel monastero benedettino di Paglia, per avere da lui un quadro generale della situazione religiosa nel Veneto. Durante gli anni del suo lavoro quale patriarca di Venezia, Roncalli continuò a consultare Bortignon, a scrivergli lettere, a telefonargli. A volte il Patriarca veniva interpellato dalla Santa Sede sulla situazione politica italiana e, quasi a rendere più convincente la sua risposta, Roncalli aggiungeva nelle sue lettere alla Segreteria di Stato: «Questo è anche il parere del vescovo di Padova monsignor Bortignon».
Nell’ottobre 1958, prima di entrare in Conclave, il Patriarca inviò un biglietto a Bortignon in cui chiedeva preghiere, in particolare all’altare di San Gregorio Barbarigo, e scriveva: «Questo santo fu in Conclave gran candidato ma riuscì sempre ad evitare la tremenda responsabilità». Roncalli sapeva che molti lo volevano papa e confidava questo segreto al suo migliore amico. Da questi brevi cenni biografici, si comprende che monsignor Bortignon è stato un vescovo di grande attività e di autentico zelo per la Chiesa e per la missione che gli era stata affidata. Si stenta a pensare che egli abbia contrastato con tanto accanimento Padre Pio e tutte le sue iniziative.
Antichi pregiudizi
Negli anni dell’immediato dopo guerra, anche a Padova alcuni devoti di Padre Pio avevano costituito un Gruppo di preghiera, come quelli che si andavano formando dappertutto.
Ritratto di Elia Dalla Costa (1872-1961). Inizialmente fu scettico su Padre Pio, ma quando divenne cardinale di Firenze si ricredette.
I devoti del Padre nella città veneta erano pochi, ma credevano in continuazione. Coloro che tornavano dalle visite a San Giovanni Rotondo, riferivano di miracoli, di conversioni, delle folle che avevano visto in quel piccolo paese, dell’atmosfera mistica che lassù si respirava e del fascino che Padre Pio esercitava. Parlavano con entusiasmo suscitando, in chi ascoltava, il desiderio di poter fare le stesse esperienze. I viaggi si ripetevano e i devoti di Padre Pio aumentavano. Tra questi devoti c’erano anche due sacerdoti: don Nello Castello e don Attilio Negrisolo, che diventarono subito il punto di riferimento di tutti gli altri devoti.
Padre Pio raccomandava sempre ai suoi figli e ai suoi devoti di tenersi in sintonia perfetta con la chiesa locale, con il proprio vescovo, con i sacerdoti delle parrocchie dove vivevano. Tutto quello che facevano, doveva essere approvato e condiviso dai loro superiori ecclesiastici. Su questo il Padre era inflessibile. E i suoi devoti lo ascoltavano ciecamente.
A Padova, però, i devoti di Padre Pio non erano ben visti dalle autorità ecclesiastiche e dal clero in genere. Quest’antipatia, mista a sospetto, affondava le radici negli anni Venti, quando c’erano state le prime condanne del Sant’Uffizio, provocate dalla “falsa” relazione di Padre Gemelli sulle stigmate del cappuccino.
In quegli anni, la diocesi patavina era retta da Elia Dalla Costa, che, nel 1933, sarebbe diventato arcivescovo di Firenze e cardinale, e del quale è stata aperta la causa di beatificazione. Elia Dalia Costa era un “vescovo santo”, figura carismatica della Chiesa in questo secolo. Egli, fedele alle disposizioni del Sant’Uffizio ed estimatore di Padre Gemelli, quando vennero emesse le prime condanne, si schierò, naturalmente, subito contro Padre Pio contribuendo, con il peso della sua statura morale, a screditare il cappuccino stigmatizzato.
Nel 1925, Elia Dalla Costa non solo pubblicò, nel Bollettino diocesano, il decreto del Sant’Uffizio che dichiarava le stigmate di Padre Pio prive di qualsiasi elemento soprannaturale e frutto solo di mistificazione, ma lo commentò, diffidando i propri sudditi diocesani a seguire false illusioni e manifestando il timore «per le conseguenze cui può dar luogo un falso spiritualismo». Qualche giorno dopo, predicando nella cattedrale, disse: «Noi credevamo che Padre Pio fosse un santo, invece non è così». Il clero si attenne alle disposizioni e alle parole del prestigioso vescovo.
L’atmosfera di ostilità a Padre Pio cambiò quando divenne vescovo di Padova monsignor Carlo Agostini. Nel 1933 Pio XI, intervenendo personalmente aveva fatto “liberare” il Padre. Le condanne e le proibizioni si dovevano perciò ritenere decadute. E Agostini permise i pellegrinaggi a San Giovanni Rotondo, organizzati da sacerdoti della sua diocesi. Aveva permesso anche che a Padova un Gruppo di preghiera, i cui partecipanti si riunivano, ogni primo venerdì del mese, nella chiesa di San Prosodocimo, sotto la guida di un sacerdote da lui indicato, don Antonio Varotto.
Ma con l’arrivo di monsignor Bortignon la situazione cambiò di colpo. Egli non aveva alcuna stima di Padre Pio e non voleva che nella sua diocesi ci fossero i Gruppi di preghiera. Cominciarono le ostilità.
«Soffri, taci e prega»
«Andai la prima volta a San Giovanni Rotondo per incontrare Padre Pio nel 1947», mi ha raccontato don Attilio Negrisolo, sacerdote padovano, che divenne figlio spirituale di Padre Pio a vent’anni e che, per restare fedele al Padre, dovette subire persecuzioni e condanne che lo rovinarono per il resto della sua vita.
«Ero seminarista ma stavo attraversando un brutto periodo, pieno di dubbi e di difficoltà. Qualcuno mi aveva parlato di quel santo cappuccino e sentii il desiderio di andare a trovarlo. Lo incontrai il 25 luglio di quell’anno. Mi confessai da lui. Gli esposi tutti i miei tormenti e quell’incontro cambiò la mia esistenza.
Don Attilio Negrisolo. Già dal loro primo incontro, P. Pio gli disse: “Figlio mio, soffri, taci e prega”.
«Mentre ero inginocchiato davanti al Padre, nel confessionale, e gli aprivo la mia anima, lui mi guardava. Ad un certo momento sentii un’ondata di energia, una energia potente e strana, partire da Padre Pio. Arrivò a me, mi avvolse da capo a piedi, facendomi rabbrividire come se avessi la febbre, e poi tornò a lui. Era come se quell’energia mi avesse inglobato, legato al Padre. Lui, al termine di quell’incontro, mi disse: “Soffri, taci e prega”. E quelle tre parole divennero il programma della mia vita. Da allora non ho avuto dubbi. Non ho più avuto ripensamenti. Avevo già tutto chiaro dentro di me.
In seguito ho dovuto soffrire molto per Padre Pio. Sono stato perseguitato in modo terribile, la mia vita, di uomo e di sacerdote, è stata costellata di prove, di umiliazioni, di condanne, ma non mi sono mai lamentato. Ho sempre tenuto vive nella mia mente quelle tre parole: “Soffri, taci e prega”.
«Tornato a casa, parlavo a tutti di Padre Pio. E ne parlavo con tale entusiasmo che qualcuno diceva che ero fanatico. Il mio parroco era preoccupato. Anche in seminario erano perplessi. Ritardarono la mia ordinazione sacerdotale, ma poi tutto si appianò. Venni ordinato sacerdote nel 1950 e subito chiamato a insegnare in Seminario.
A 24 anni, ero già professore nel liceo del seminario. Un posto di prestigio. Contemporaneamente, studiavo all’università di Padova Scienze naturali. Credo che il vescovo Bortignon, allora, mi stimasse e mi volesse bene. Probabilmente aveva dei progetti su di me per avermi affidato quell’incarico in seminario mentre ero ancora così giovane, io, da parte mia, cercavo di rispondere alla sua fiducia impegnandomi al massimo. All’università, per esempio, non ho mai pagato le tasse perché avevo la media sempre molto alta e alla fine mi sono laureato con il massimo dei voti e la lode. Anche gli altri professori mi stimavano: il preside della Facoltà teologica mi nominò suo esecutore testamentario.
Su una sola cosa non andavo d’accordo con il mio vescovo: Padre Pio. Lui dimostrava indifferenza e disprezzo per il suo confratello cappuccino di San Giovanni Rotondo, io invece lo ritenevo un santo: era il mio Padre spirituale, il mio confessore, la mia guida.
«Il vescovo mi diceva spesso: “Guarda di filare diritto altrimenti sarò costretto a prendere dei provvedimenti”. Ma io volevo essere il migliore, avevo un solo scopo nella mia vita: essere un sacerdote santo, come Padre Pio. Quindi non avrei mai dovuto creare problemi al mio vescovo, per il quale avevo affetto e grandissima stima».
Il primo attacco ufficiale di Bortignon
Non facevo mai niente senza chiedere il permesso ai superiori. Anche per raggiungere San Giovanni Rotondo e andare da Padre Pio, chiedevo sempre il permesso. Per non danneggiare, anche minimamente il mio lavoro di insegnante, cercavo di andare dal Padre durante le vacanze. Mentre gli altri professori del seminario approfittavano dei mesi estivi per riposarsi in montagna, o andare a villeggiare in luoghi tranquilli e freschi, io andavo a San Giovanni Rotondo per stare accanto a Padre Pio.
A Padova c’erano altre persone devote di Padre Pio. Laici e sacerdoti. Li conoscevo e li frequentavo. Tra noi eravamo molto uniti. Ci aiutavamo. Cercavamo anche di pregare insieme. Fino al 1950 c’era stato un bel Gruppo di preghiera, ma poi era stato sciolto per volere del vescovo. Di fatto, però, continuavamo a incontrarci per pregare insieme. Questo nessuno poteva impedircelo.
Ma al vescovo il nostro comportamento non piaceva. E cosi, nel 1956, intervenne pubblicando sul Bollettino diocesano il suo pensiero e delle precise disposizioni riguardo i Gruppi di preghiera.
“Per quanto riguarda il Padre Pio da Pietrelcina”, scrisse sul Bollettino diocesano il Presule, fin dai tempi in cui era studente nell’Ordine Cappuccino, sentii parlare di questo religioso come favorito dal Signore. Non l’ha però mai visto. “Esiste da oltre vent’anni un divieto fatto ai religiosi cappuccini di recarsi dal suddetto confratello e di far propaganda in suo favore; divieto che non è stato ancora tolto. Come esistono anche interventi dalla Santa Sede”.
Il vescovo, nel suo intervento, parla poi della preghiera in comune per arrivare ai Gruppi di preghiera. “Quanto ai gruppi di preghiera”, scrisse “per loro statuto devono ottenere il nulla osta dell’Ordinario Diocesano ed essere diretti da un sacerdote incaricato dal vescovo. Ora il vescovo di Padova non ha ritenuto opportuno dare il nulla osta per il motivo che in questo movimento, come è attuato in diocesi, si riscontrano degli atteggiamenti equivoci, delle manifestazioni esagerate, e delle affermazioni strane che consigliano l’Ordinario ad una doverosa prudenza e a un cauto riserbo”.
«Il Vescovo terminava il suo scritto con una considerazione di carattere dottrinale, che costituì poi il punto focale delle polemiche. “Sottolinea poi il Vescovo la necessità di evitare ogni esagerazione nelle forme di devozione. Si sconsigliano perciò sacerdoti e fedeli dall’organizzare in diocesi pellegrinaggi al Padre Pio da Pietrelcina e anche celebrazioni di sante messe o cenacoli di preghiere in unione al predetto Padre. Si ritiene che ciò non corrisponda al Sensus Ecclesiae Christi, perché la Chiesa riserva certe determinate manifestazioni ai Servi di Dio già defunti”».
La verità prima di tutto. Anche della carità.
Dopo l’uscita di queste pubblicazioni, il vescovo, un giorno, incontrandomi, mi chiese se le avevo lette e che cosa ne pensassi. “Sono rimasto molto male, Eccellenza”, gli risposi. E lui mi disse: “Va’ da Padre Pio e chiedigli il suo parere”. Non me lo feci ripetere due volte. Appena trovai del tempo libero, partii per San Giovanni Rotondo. Feci il viaggio nel febbraio 1957. Vennero con me don Nello Castello e il dottor Renzo Rivetta.
Dissi a Padre Pio la ragione della mia visita e gli mostrai il Bollettino diocesano di Padova, con le disposizioni del vescovo che riguardavano lui e i Gruppi di preghiera. Padre Pio lesse attentamente. Poi rimase a lungo in silenzio. Lui, che vedeva il futuro, ebbe certamente la intuizione chiara di quello che sarebbe accaduto. Capì che il vescovo di Padova cercava dei pretesti per muovergli la guerra. Se Padre Pio non avesse voluto avere delle grane, sarebbe bastato che avesse lasciato perdere. Poteva dirmi: Il vostro vescovo non vuole i gruppi di preghiera, me ne dispiace, sono costretto a lasciarvi al vostro destino. Dimenticatemi. Arrangiatevi. Non vi posso aiutare. Noi, in fondo, eravamo quattro gatti. Lui aveva devoti dappertutto, che potevano agire liberamente. Poteva seguire quelli. Con noi avrebbe avuto solo dispiaceri. Anche gravissimi. E lui lo sapeva bene.
Ma Padre Pio era diverso da tutti gli altri uomini. Non avrebbe mai abbandonato un suo figlio spirituale nelle difficoltà per nessuna ragione al mondo. Come non avrebbe mai smesso di dire la verità quando gli era richiesta. Lo avrebbe fatto a costo della vita. La Verità, per Padre Pio, veniva prima di tutto. Prima anche della Carità. Diceva che la Carità senza la Verità, e senza la Giustizia che è Verità, non poteva esistere. Dio è Verità, prima ancora di essere Carità.
Quando, perciò, gli ho detto che il Vescovo di Padova voleva conoscere il suo parere su quelle disposizioni, disse apertamente e chiaramente ciò che pensava. Sapeva che, data la situazione, la sua risposta sarebbe stata esaminata meticolosamente, anche nei significati sottintesi. Perciò mi chiese ripetutamente se il vescovo chiedeva veramente il suo parere. Certo, mi ha mandato qui a posta”, gli risposi. Allora mi fece cenno di seguirlo. Andammo in una saletta del convento, si sedette e mi chiese di rileggergli adagio quanto aveva scritto il vescovo. Si soffermò sulla parte finale, la “nota” di carattere dottrinale, e volle commentarla ampiamente. Mi faceva leggere una frase ed esprimeva il suo pensiero. Io prendevo nota».
Puzza di eresia
«Lessi: “Il vescovo sottolinea poi la necessità di evitare ogni esagerazione nelle forme di devozione”. Padre Pio: “Niente da dire”.
«Lessi il secondo paragrafo: “Si sconsigliano perciò sacerdoti e fedeli dall’organizzare in diocesi pellegrinaggi al Padre Pio da Pietrelcina”. Padre Pio: “Fin qui va bene. I pellegrinaggi Padre Pio stesso li sconsiglia e quando si presentano dei gruppi, cerca di evitarli e non li strapazza perché sono creature di Dio”. Poi, parlando sotto voce, soggiunse: “Il colpo qui è contro di me… in ultima, vengono per purgarsi l’anima”.
Nel bollettino diocesano di Bortignon, Padre Pio individuò errori contro la fede e la carità.
«Lessi ancora: “E sconsiglia anche celebrazioni di Sante Messe”. Padre Pio: “Questo è contro la carità. Io posso pregare per i buoni perché siano perseveranti, e per i cattivi, perché si convertano. Anzi, come dice Sant’Alfonso Maria de’ Liguori: ‘Uno, privatamente, può pregare anche per Lutero stesso’. In nessun modo può essere detta e scritta un’affermazione simile”.
«Andai avanti: “Sconsiglia cenacoli di preghiere in unione al predetto Padre”. Padre Pio: “È la preghiera in comune che qui viene sconsigliata. Ora questa preghiera in comune è quella a cui da 18 anni invitai il Papa. Casa Sollievo della Sofferenza ha accolto questo appello del Papa e a quelli che qui venivano e domandavano cosa dovevano fare, presentava questo appello del Papa. Casa Sollievo presentava l’appello chiarissimo del Papa e, di sua iniziativa, per evitare esagerazioni, deviazioni (quell’esagerazioni lamentate anche dal vescovo all’inizio del suo scritto) aggiunse che questa preghiera in comune doveva svolgersi sempre con l’assistenza di un sacerdote, nominato dai vescovo stesso. Il compito di questo sacerdote è di istruire, guidare e indirizzare le anime riunite nella preghiera in comune. Tante anime lontane da Dio, che voi dovevate tirare al bene, le rimandiamo convertite; non solo, ma disposte a unirsi, con altre, in preghiera per rispondere all’appello del Papa, e vi domandiamo che le aiutiate. Tutto qui”.
«Continuai a leggere un altro passo dello scritto del vescovo: “Sì ritiene che ciò non corrisponda al sensus Ecclesiae Christi”. Padre Pio: “Questa frase puzza di eresia e sarebbe di competenza del Sant’Uffizio. Secondo quanto è scritto, non corrisponderebbe al sensus Ecclesìae Christi il celebrare sante messe secondo l’intenzione di una persona. Posso, invece, celebrare secondo l’intenzione di qualsiasi persona. Il vescovo scrive: ‘in unione’. Qui è il punto. Non è detto, ‘a onore’. Allora avrebbe ragione il vescovo a sconsigliare. Ma chi pensa a questo? Qualche pazzo da manicomio. Il pregare ‘in unione con qualcuno’ è l’anima di tutta la liturgia. Negare questo, sarebbe andare contro la pratica della Chiesa e gli insegnamenti dei Pontefici. Attenzione, ho detto ‘pregare in unione con qualcuno’ e non ho detto ‘pregare qualcuno’. In questo secondo caso avrebbe ragione il vescovo”.
«Lessi ancora: “Perché la Chiesa riserva certe determinate manifestazioni ai Servi di Dio già defunti”. Padre Pio: “Questo è velenoso. E svela l’animo maligno. Dovevano mettere questa frase in principio. Il codicillo non discende dalle premesse. E un’aggiunta capziosa che svela un animo cattivo”. Padre Pio mi fece capire che, secondo lui, non era stato il vescovo a scrivere quella aggiunta: “Non so capire”, disse “come il vescovo abbia permesso che tosse stampata una simile confusione”».
Scandalizza i buoni e fa ridere gli increduli
E continuò quasi indignato: “Questa ultima aggiunta, ‘perché la Chiesa riserva eccetera’ indigna e fa soffrire i buoni, scandalizza i pusillanimi, fa ridere gli increduli. Indigna i buoni perché è errato, quanto si dice intorno alla celebrazione della santa messa e alla preghiera in comunione. È detto infatti, giustamente ‘in unione’. Se si sconsiglia questo, vuol dire che non si considera l’anima delle preghiere della liturgia. Basta praticamente sapere un po’ di catechismo per capire che qui è sbagliato.
Scandalizza i deboli nella fede, ed è chiaro. Le anime stesse vi domandano che le istruiate. Se non le ascoltate, è segno allora che voi non avete voglia di pregare. Casa Sollievo poi non riconosce alcun gruppo se non è così costituito e cioè alle dirette dipendenze del vescovo, sotto il controllo di un sacerdote, tutto in risposta all’appello del Pontefice. Mi meraviglia e mi stupisce che un figlio di San Francesco si pronunci contro la preghiera in comune, a cui tanto insistentemente invita il Papa. I Gruppi di preghiera, intesi e costituiti in questo senso, esistono in Vaticano, in Segreteria di Stato. L’arcivescovo di Milano, monsignor Montini, ha raccolto più di trecento sacerdoti per invitarli a costituire Gruppi di preghiera nella sua diocesi. Non si tratta solo di gente del Popolo. Nel Policlinico di Bari c’è un gruppo di preghiera di cristiani ferventi, tutti professionisti. Oggi sono 700 i Gruppi di preghiera cosi costituiti in tutto il mondo. È la nostra risposta all’appello del Papa.
“Fa ridere gli increduli. Questi popone dire: ‘Neppure fra loro vanno d’accordo’. Tutto puzza di eresia, perché un incredulo può ben dire e concludere che non è bene, anzi esagerazione fare dei pellegrinaggi; è esagerazione far celebrate messe per una persona; è contro la Chiesa pregare in comunione: allora preghiamo a casa, ognuno per contro proprio”.
Mentre il Padre parlava, io avevo preso appunti. È per evitare di non saperli leggere chiaramente, appena finito l’incontro mi ritirai e trascrissi tutto in bella grafia, in modo di essere in grado dì poter riferire con precisione le sue parole».
“Siete tutti pazzi e fanatici!”
«Tornato a Padova chiesi udienza al vescovo e gli portai le risposte e i commenti di Padre Pio. Monsignor Bortignor lesse attentamente, poi disse: “Padre Pio ha capito male”. E aggiunse: “Siete tutti dei pazzi e dei fanatici!”. Non potevo recarmi subito da Padre Pio per portargli la risposte del vescovo. Mi rivolsi a una figlia spirituale del Padre che stava per recarsi a San Giovanni Rotondo e la pregai di riferirgli quanto aveva detto monsignor Bortignon. E Padre Pio rispose: “No, lui ha scritto male, io ho capito bene”. Tornai dal vescovo con quella frase. Allora monsignor Bortignon scrisse di suo pugno un biglietto e mi pregò di portarlo a Padre Pio. Non ho mai conosciuto il contenuto di quel foglietto. Alla mia prima vista a San Giovanni Rotondo lo consegnai a Padre Pio. Dopo averlo letto in mia presenza, il Padre disse: “Facciamo buon viso a cattivo gioco”.
fonte:www.gloria.tv Estratto del libro “A tu per tu con Padre Pio” di Renzo Allegri (Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1995).